Ho conosciuto Jacques Goldstyn, attraverso, il suo bellissimo libro “Bertolt”, pubblicato qualche anno fa dalla casa editrice LupoGuido. Un albo che descrive la tenera amicizia fra un bambino che fa fatica a conformarsi, a trovare il suo posto nel mondo, ed un’enorme quercia – Bertolt – dal passato centenario e dal ceppo ben piantato nel terreno. Che diventa un labirinto ed una fortezza dal quale si può esplorare la realtà senza essere visti. Sfiorare il reale, rimanendone al riparo.
Se mi soffermo a pensare ad un autore come Goldstyn quello che mi viene subito alla mente è il termine “radici”.
Ovvero quanto i legami, fisici, familiari, storici o affettivi, siano una chiave determinante per comprendere i suoi libri. Quanto le sue pagine si sostanzino di sottili trame, di orditi che sono più o meno manifesti ma che costituiscono di fatto una componente davvero importante della sua produzione, non solo da un punto di vista tematico ma anche da un punto di vista narrativo e come espediente visivo simbolico che si collega strettamente al tema della memoria.
Sicuramente ritroviamo queste tracce in “Bertolt“: nella relazione forte che si è stabilita nel tempo fra due elementi che ormai abbiamo imparato a guardare come facenti parte dello stesso mondo naturale (l’infanzia e l’albero), sia nel modo “bambino” che molto ha di rituale e di iniziatico nel voler celebrare l’addio del proprio compagno ed insieme serbarne il ricordo.
In “Tricot” il richiamo si fa tangibilmente ancora più forte dato che l’elemento attorno al quale si “snoda” letteralmente la storia è una sciarpa di lana lavorata a maglia da una nonna. Ancora una volta risuona la memoria che attraversa le soglie del tempo, ancora una volta la gestualità a creare ricordi e recuperare un passato che in Goldstyn non è mai retroflessione ma scatto verso il futuro.
In “Le stelle“, l’ultima uscita dell’autore per “La Nuova Frontiera Junior”, un’opera a metà strada fra l’albo illustrato e il fumetto, quello che da subito ci colpisce nel profondo è l’intensità della componente visuale di pagine gravide di blu: il colore del cielo stellato che, Yakov, il protagonista, osserva fin dalla sua infanzia, immaginando di poter diventare – un giorno – un astronauta.
Visitare la luna, marte, infiniti pianeti. Non certo essere droghiere, come il padre.
Lo stesso sogna Aicha, che ogni pomeriggio siede al parco assorta fra le pieghe del suo libro di astronomia.
Lui è ebreo, lei musulmana e i genitori di entrambi non vogliono che i due bambini si frequentino.
In questo caso, Goldstyn affronta il tema delle “radici culturali” in chiave nuova. Quanto possono essere fonte di pregiudizio ed ergere muri fra noi e gli altri?
E quanto noi siamo abbastanza solidi, come i nostri piedi, che possono macinare chilometri se è necessario e possono essere bellissimi come quelli di Aicha e che costituiscono simbolicamente le nostre fondamenta, per andare incontro a ciò che davvero desideriamo come fosse il nostro destino?
Quanto l’amicizia può essere forte e sopravvivere all’intolleranza?
Goldstyn ce lo spiega con levità ma senza perdere quella che è la sua forza narrativa, caricando il disegno di una densità emozionale che forse finora l’autore non aveva ancora così finemente tratteggiato.
©ZazieVostok