C’è una dimensione dell’infanzia che siamo ancora restii a riconoscere e a considerare con la dovuta dignità e importanza, come fosse una realtà di piccolo conto ed estremamente insignificante.
Sto parlando della dimensione del pensiero interrogativo, del dubbio, della domanda.
Col rischio, di essere liquidate come richieste stravaganti, i bambini, spesso già da molto piccoli, ci pongono di fronte ad interrogativi diretti ed estremamente profondi. Sulla propria esistenza, su quella del mondo, sull’origine delle cose e di sé, sul rapporto con la natura e col tutto (con l’essere in quanto tale e quindi con interrogativi ontologici addirittura).
Forse ci sarà qualche accademico che si scandalizzerà all’idea che davanti ad un bambino di soli tre anni possano dischiudersi le domande fondamentali che animano la filosofia dagli albori (dacché l’uomo si è confrontato con la meraviglia, direbbe Platone, ma forse sarebbe meglio dire con la complessità del reale).
Mi piacerebbe soffermarmi su due albi che considero emblematici nel delineare in maniera profonda ed efficace due figure che sono un esempio di infanzia meditativa e assorta. Necessariamente solitaria.
Perché è nella possibilità di congiungersi con se stesso in maniera intima che il bambino esperisce quella che è la condizione maggiormente propizia alla riflessione ed al pensiero interrogativo. Quella dimensione che prelude alla domanda, terreno fertile di intuizioni e di discernimento.
Il primo libro è “Titù”, di Claudine Galea e Goele Dewanckel (traduzione di Francesca Lazzarato), edito da Orecchio Acerbo.
Titù è il protagonista di questo albo che si connota per i suoi toni delicati ma nel quale la componente grafica ha un ruolo ben preciso.
Sulla copertina: il suo sguardo è solo in apparenza sfuggente e trasognato. Ha sulla spalla un uccellino. La sua maglia è decorata da minute arborescenze. Poniamo attenzione a questo dettaglio perché ritornerà nel secondo albo del quale parlerò.
Titù è un bambino di poche parole. Lo capiamo dai tre puntini di sospensione che ci introducono alla storia. E poi ce lo dice lui stesso. “Ho sette anni e sono un bambino silenzioso”.
Quante volte cogliamo i bambini persi in loro stessi? Sembra non stiano facendo nulla, in realtà il loro essere è concentrato in un uno stato di ragionamento totalizzante. Dal quale siamo molto spesso noi adulti a richiamarli con le nostre richieste di attenzione verso le incombenze del quotidiano.
E infatti Titù ce lo spiega “I grandi vorrebbero che parlassi”. Non c’è persona che non voglia sottrarlo alla sua visione estatica del mondo e delle cose.
“Gli occhi dicono meglio delle bocche, che bisogno c’è di parlare?”.
I genitori, invece, non sono altro che parole. Parole che impartiscono ordini, ingiungono orari, punizioni, avvertimenti.
Sulle pagine le lettere si sovrappongono graficamente in una nuvola scura e farraginosa.
A queste parole Titù non può altro che opporre quelle della fantasia e della poesia, uno dei molteplici modi che i bambini hanno di esprimere se stessi o di entrare in comunicazione con un mondo adulto, ottimamente descritto da questo albo, il quale è spesso incapace di comprendere l’infanzia come qualcosa di degnamente disgiunto.
“Nuvoleggio con le nuvole.
Sfarfallo con le farfalle.
Arrossisco con le rose.
Rimbombo con il rombo…”
Titù incede, per assonanze, nella sua attitudine di esploratore silente ma consapevole della realtà. Nella piena coscienza, bambina e panteistica insieme, di essere elemento fra gli elementi della natura. Una natura preziosa e bellissima.
“Penso a quello che vedo.
Non ho mai abbastanza tempo
Per pensare a tutto quello che vedo.
Da dove viene la pioggia?
Dove va il sole?
Perché il cielo non cade?
“Le onde si fanno male contro la scogliera?”.
Titù che alberga in un paese a misura di Titù, ovvero un mondo totalmente avulso rispetto a quello adulto e che richiama ancora una volta il tema dell’”alterata dell’infanzia”, mette in discussione persino il fluire del tempo per lasciarsi guidare da un tempo del tutto interiore – che permette di percepire ogni cosa più intensamente – travalicandone quella che è la nozione “convenzionale”.
“Aspetto che la mia cioccolata sia tiepida, poi fredda”
“Con le labbra percorro piano piano il viso della mamma”
“Mangio i piselli a uno a uno”
L’infanzia è un’età che si percepisce attiva in un eterno presente e che scopre, senza saperlo, l’eternità.
Le immagini sulle pagine alternano natura rigogliosa a spazi metafisici.
Essere in relazione col tutto passa attraverso la relazione essenziale con la natura. Altro tema fondamentale che guida la letteratura per l’infanzia e che ci lega come un sottile filo rosso al secondo albo.
In questo caso si tratta di una ristampa di un’opera edita da Edizioni Corsare:
“La bambina che ascoltava gli alberi”, testi di Maria Loretta Giraldo, illustrazioni di Cristina Pieropan.
Di questo libro sappiamo che viene alla luce dai ricordi di infanzia di Pieropan che proprio come la protagonista, che non ha nome, e come Titù, è un personaggio profondamente “raccolto”, pensoso, solitario.
La bambina “aveva un caschetto sbarazzino e due occhi allegri e una bocca sorridente”. Ma non è solo con gli occhi che questa bambina esperisce le cose.
“Tutto ad un tratto, a un sottile mormorio di foglie o a un lieve stormire di fronde, la bambina si faceva seria e attenta … […]…Nessuno riusciva a sentire il respiro degli alberi come faceva lei. Nessuno sapeva comprenderne così chiaramente la voce. Bisogna fare silenzio per capire ciò che gli alberi ti vogliono dire”.
Ed ecco tornare Titù ed insieme a lui l’infanzia.
Molto spesso le parole non sono sufficienti a spiegare o non sono utili per capire. Esiste un unico modo ed è intuire, cogliere, percepire. Lo stare in silenzio. Porsi in ascolto.
Esserci. Semplicemente.
O raccogliere in dono le grandi foglie verdi di una magnolia “per farci una mascherina e vedere il mondo con gli occhi di un albero”. Esserci ed essere nell’altro. Partecipare al sentire del tutto. Farsi albero, ed essere albero. Simbolo universale di una natura alla quale siamo legati indissolubilmente.
Questo albo è un rincorrersi di tavole tassonomiche e di stati d’animo illuminanti.
Tante piccole epifanie che non hanno nulla di dirompente, ma giungono quiete ad una metamorfosi finale che è anche percezione di quanto minima sia la distanza che ci separa dalla natura e dalla molteplicità dell’essere.
“Per un meraviglioso istante
Fu un grande albero:
Un grande meraviglioso albero
Che unisce la terra al cielo.
Un bambino che le passava accanto per cercarla, non la vide”.
E dunque, soffermandoci su questi due albi, possiamo immaginare l’interiorità bambina come illuminata da lampi che rischiarano questo o quel pensiero e che con la stessa intensità preludono ad interrogativi che esigono un riscontro.
Per chi voglia confrontarsi con questo tema e approfondire il rapporto del mondo bambino con la filosofia, per riuscire a comprendere quale possa essere il nostro modo di venire incontro a questa richiesta così necessaria e vitale, consiglio due letture per me imprescindibili.
Il primo è un volume che si intitola “Una frescura al centro del petto. L’albo illustrato nella crescita e nella vita interiore dei bambini”, di Silvia Vecchini, edito da Topipittori.
Silvia Vecchini mette in evidenza come la tenera età sia la più feconda di curiosità e di dubbi e che questi finiscano per esaurirsi nel corso del tempo, non tanto perché non ci sia nel bambino il desiderio di scoprire il mondo, quanto piuttosto perché l’adulto non è preparato ad accogliere questo bisogno di conoscenza profonda.
Ancora una volta, come spesso accade, entra in gioco l’albo illustrato a suggerire visioni e a tradurre stati d’animo, contando su parole e figure in un sincretismo che è potenziale infinito. Vecchini ci accompagna in un viaggio attraverso le pubblicazioni della casa editrice Topipittori, a ricostruire idealmente una mappa esistenziale ricca di occasioni e corrispondenze, a tradurre un universo di senso che spesso non trova risposte ma genera confronto e sollecitazione al pensiero.
La seconda pubblicazione che ho trovato di grande interesse è stata “Stavo pensando. Albo e filosofia”, a cura dell’Associazione Culturale Hamelin.
In essa trovano spazio i contributi di esperti che ci fanno riflettere su quanto l’albo sia “medium” di riflessione e dialogo, anche su temi che potremmo considerare lontani dalla consapevolezza dei bambini, come l’idea della morte o l’esistenza di Dio. Una digressione sul pensiero della grande filosofa del Novecento Anna Harendt ci mette di fronte al fatto che non esista esercizio del pensiero che non sia relazione con l’altro.
E dunque che fare filosofia sia di fatto impegno civile e politico. Essere nella storia.
Un messaggio molto potente, che apre ad una consapevolezza ulteriore riguardo al modo di essere filosofi e alle sue implicazioni. Esercitare ogni forma di pensiero diviene quindi operare nella società in maniera consapevole. Quanto questo sia auspicabile per la crescita personale di ogni individuo, diviene evidente.
Nel giorno di San Valentino, mi andava di celebrare l’amore per la conoscenza.